IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile n.  499/90
 r.g.  promossa  dalla  S.a.s. Immobiliare Cravario L. & C. in persona
 del  legale  rappresentante  sig.ra  Carolina  Cravario   ved.   Luzi
 elettivamente domiciliata in Torino, via delle Orfane, n. 5 presso lo
 studio  dell'avv.  Aldo Pipan che la rappresenta e difende per delega
 in  data  11  gennaio  1990,  contro  la  S.r.l.  Fallimento   Centro
 Arredamenti in persona del curatore rag. Vincenzo Musso elettivamente
 domiciliato  in  Torino  via  Montecuccoli  n.  9,  presso  lo studio
 dell'avv. Fabrizio di Majo che lo rappresenta e difende per delega in
 data 15 marzo 1990,  convenuto,  e  contro  Speranza  Ennio  titolare
 dell'omonima ditta elettivamente domiciliato in Torino via S. Tommaso
 n.  20, presso lo studio dell'avv. Gianluigi Matta che lo rappresenta
 e difende per delega in atti, intervenuto volontario.
                               F A T T O
    Con  atto  di  citazione  notificato  in  data  12  gennaio   1990
 l'immobiliare  Cravario  citava  in  giudizio dinanzi al tribunale di
 Torino il fallimento della S.r.l. Centro arredamenti, esponendo:  che
 in  data  6 giugno 1984 essa attrice aveva concesso in locazione alla
 societa' "La Cameretta  di  Gambalunga  Massimo  S.a.s."  una  unita'
 immobiliare  sita in Torino, in piazza Statuto n. 24, descritta nella
 planimetria allegata al contratto prodotto in causa; che la  societa'
 locataria  aveva  poi  ceduto  l'azienda  ed  i relativi contratti di
 locazione alla Centro  arredamenti  S.r.l.,  dichiarata  fallita  con
 sentenza  31  marzo  1989; che la societa' esponente si era insinuata
 nel passivo fallimentare, vantando un credito relativo  al  pagamento
 dei  canoni  di  locazione dal 1ยบ novembre 1988 al 31 marzo 1989; che
 peraltro dalla dichiarazione di fallimento in poi, non essendo  stato
 effettuato  il  recesso a norma dell'art. 80 della l.f., gli obblighi
 del conduttore facevano  capo  al  fallimento  medesimo;  che  invece
 nessuna  somma  era stata versata a titolo di pagamento del canone di
 locazione, ragion per cui essa  attrice  vantava  nei  confronti  del
 fallimento  un  credito  costituito  da undici mensilita' del canone,
 pari a L. 5.400.000,  dagli  oneri  accessori  non  versati  e  dagli
 aumenti del canone non ancora applicati.
    Concludeva  pertanto  chiedendo  dichiararsi  la  risoluzione  del
 contratto di locazione per fatto e colpa del convenuto, e condannarsi
 il fallimento all'immediato rilascio dei locali ed al  pagamento  dei
 canoni e delle spese accessorie sinora maturati, nonche' al pagamento
 di  somme  equivalenti, da corrispondersi a titolo di indennizzo fino
 al momento del rilascio, oltre  alla  rivalutazione  monetaria,  agli
 interessi  legali  ed  al  risarcimento degli ulteriori danni, con il
 favore delle spese e sentenza esecutoria.
    Costituitosi  in  giudizio,  il  fallimento  della  S.r.l.  Centro
 arredamenti  replicava:  che  il  locatore  avrebbe  dovuto  emettere
 regolare fattura per ogni canone mensile,  precisando  inoltre  quale
 sarebbe dovuto essere il canone rivalutato a partire dal luglio 1989;
 che  era  onere  del  locatore,  a  norma  dell'art. 9 della legge n.
 392/1978,  richiedere  al  conduttore  il   pagamento   delle   spese
 accessorie, specificandone l'ammontare e consentendo alla controparte
 di  eseguire  un controllo sui documenti giustificativi; che pertanto
 esso  convenuto  non  poteva  essere  ritenuto  inadempiente,   fatta
 eccezione  per  il  mancato  pagamento del canone relativo al mese di
 aprile  1989;  che,  pertanto,  prima  della  data  fissata  per   la
 comparizione  delle  parti, era gia' stato versato a parte attrice la
 somma di L. 57.918.260, ricomprensiva dei canoni, relativi al periodo
 intercorrente tra aprile 1989  e  gennaio  1990,  e  degli  interessi
 legali  gia'  maturati  (a  partire dal mese di febbraio 1990 secondo
 l'assunto di  parte  convenuta,  il  canone  era  stato  regolarmente
 corrisposto   dalla   ditta   Speranza  Emilio,  che  aveva  rilevato
 l'azienda); e che  pertanto  era  applicabile  nella  fattispecie  la
 sanatoria  di cui all'art. 55 della legge n. 392/1978, norma, questa,
 valevole non solo nei procedimenti  speciali  di  sfratto,  ma  anche
 nell'ambito dei giudizi ordinari.
    Parte   convenuta   concludeva   chiedendo   in   via  principale,
 respingersi le domande attrici, dandosi atto  che  la  morosita'  era
 stata  sanata,  previa  liquidazione  delle spese e concessione di un
 termine per il pagamento; in via subordinata, rigettarsi  le  pretese
 avversarie,   ritenendo  non  grave  l'inadempimento  del  fallimento
 convenuto; in ogni caso con il favore delle spese.
    In corso di causa interveniva volontariamente Speranza  Ennio,  il
 quale,  richiamate  tutte  le  difese  gia'  svolte  dal  fallimento,
 formulava  conclusioni  del  tutto  analoghe,  chiedendo  darsi  atto
 comunque  del  pagamento dei canoni e delle spese accessorie da parte
 dell'intervenuto   per   il   periodo   successivo   alla    cessione
 dell'azienda.
    Veniva  quindi  esperita  l'istruttoria,  nel corso della quale il
 giudice istruttore  respingeva  l'istanza,  avanzata  dal  fallimento
 convenuto,  volta ad ottenere la liquidazione delle spese di giudizio
 a norma dell'art. 55 della legge n. 392/1978.
    In sede di precisazione delle conclusioni parte  attrice  limitava
 le  proprie richieste alla declaratoria di risoluzione del contratto,
 alla condanna al rilascio dell'immobile ed al risarcimento dei  danni
 da liquidarsi in separato giudizio.
    All'udienza  del  4  aprile  1991  la  causa, rimessa al collegio,
 veniva trattenuta a decisione.
                             D I R I T T O
    Tutto cio' premesso,  per  quanto  attiene  allo  svolgimento  del
 processo,  il  tribunale  ritiene  di  dover  sollevare  eccezione di
 illegittimita' costituzionale dell'art.  55  della  citata  legge  n.
 392/1978, in relazione all'art. 3 della Costituzione.
    L'eccezione   -  sollevata,  sia  pure  in  via  subordinata,  dal
 fallimento convenuto e dal terzo intervenuto in causa - e'  rilevante
 ai fini della decisione.
    Ed  invero, posto che solo dopo la notifica dell'atto introduttivo
 del presente giudizio il fallimento della Centro  arredamenti  S.r.l.
 ha provveduto al pagamento dei canoni scaduti e degli oneri accessori
 conseguenti alla locazione (spese, quest'ultime, corrisposte in corso
 di  giudizio,  prima della rimessione della causa al collegio), e' di
 indubbia rilevanza stabilire se  nella  fattispecie  sia  applicabile
 l'art.  55  della  legge  7  luglio  1978,  n.  392,  che sancisce la
 possibilita' per  il  conduttore  di  sanare  la  morosita'  in  sede
 giudiziale, cosi' escludendo la risoluzione del contratto, ovvero non
 sia  invece  richiamabile  il  principio  generale, sancito dall'art.
 1453, ultimo comma del c.c., secondo cui, dopo la proposizione  della
 domanda  di risoluzione, e' preclusa all'inadempiente la possibilita'
 di un adempimento successivo.
    E' quindi  evidente  che  dalla  risoluzione  della  questione  di
 diritto anzidetta dipende l'accoglimento o meno della domanda attrice
 diretta  ad ottenere una pronuncia dichiarativa della risoluzione del
 contratto  (cio'  ovviamente  sul  presupposto  di  un   accertamento
 positivo  -  riscontrabile nella fattispecie - in ordine all'esigenza
 della morosita').
    La questione, cosi' come prospettata dalle parti, e'  inoltre  non
 manifestamente  infondata  in  relazione  al principio di uguaglianza
 sancito dall'art. 3 della Costituzione.
    Occorre a questo punto riassumere brevemente le posizioni,  emerse
 in corso di causa, con riferimento all'interpretazione della norma.
    A  questo  proposito la suprema corte si e' pronunciata, statuendo
 che la particolare sanatoria della morosita' nel pagamento del canone
 di locazione, stabilita dall'art. 55 della legge  n.  392  del  1978,
 trova  applicazione soltanto nel procedimento di convalida di sfratto
 per morosita' di cui all'art. 658 del c.p.c. e non pure  qualora  sia
 introdotto  con  citazione  un  ordinario giudizio di risoluzione del
 contratto per inadempimento, nel  qual  caso  non  e'  consentito  al
 conduttore  adempiere  la  propria  obbligazione dopo la proposizione
 della domanda ai sensi del terzo comma dell'art. 1453 del c.c.  (cfr.
 cass.  sez.  III, 5 luglio 1985, n. 4057 e cass. sez. III, 23 ottobre
 1989, n. 4292).
    Peraltro, tale  orientamento  non  e'  condiviso  da  parte  della
 dottrina e da talune pronunzie giurisdizionali di merito.
    Si  e'  infatti  osservato  che  manca qualsiasi riferimento nella
 lettera della  legge  per  agganciare  l'istituto  esclusivamente  al
 procedimento  di convalida di sfratto per morosita', contrariamente a
 quanto statuito dalla normativa precedente, in particolare  dall'art.
 37  della  legge  23 maggio 1950, n. 253, e dall'art. 4, sesto comma,
 della legge 26 novembre 1969, n. 833, che prevedeva  la  possibilita'
 di  concedere  il  termine  di  garanzia per purgare la mora solo nel
 provvedimento che disponeva il rilascio per morosita' di un  immobile
 destinato ad uso abitazione (provvedimento, questo, individuato dalla
 giurisprudenza  esclusivamente  nell'ordinanza  di rilascio emessa ai
 sensi  dell'art.  655  del  c.p.c.  a  seguito  di  opposizione  alla
 convalida di sfratto per morosita').
    Parimenti, secondo tale indirizzo interpretativo, non vi sarebbero
 ostacoli  di  natura  sistematica all'applicazione dell'art. 55 anche
 nei  giudizi  di  risoluzione  instaurati  nelle   forme   ordinarie,
 trattandosi  di norma, di portata generale, ricompresa nel capo della
 legge  relativo  alle  disposizioni processuali (tant'e' che, secondo
 l'orientamento piu' recente della giurisprudenza di legittimita', non
 si ravviserebbero preclusioni di alcun genere nell'applicazione della
 norma anche alle locazioni ad uso non abitativo, come  per  l'appunto
 quella per cui e' causa).
    Ed ancora, si e' rilevato il carattere prettamente "sostanziale" e
 non  "processuale"  dell'art.  55 della legge citata, con riferimento
 specifico all'ultimo comma, contenente la previsione  espressa  della
 esclusione   della  risoluzione  per  l'intervenuta  sanatoria  della
 morosita', di talche' sarebbe ravvisabile nell'istituto in  questione
 una  normativa di carattere speciale, costituente deroga al principio
 generale di cui all'art. 1453, terzo comma del c.c.
    Orbene, nonostante tali rilievi, ad avviso  di  questo  tribunale,
 deve essere condiviso l'orientamento espresso dalla suprema corte, in
 quanto  la  particolare procedura, prevista dalla norma, fa implicito
 riferimento  ad  un  giudice  monocratico,  non  consentendo  la  sua
 applicazione,  quanto  meno,  nel caso di instaurazione del giudizio,
 secondo le forme ordinarie, di fronte ad una autorita' giudiziaria di
 diversa natura.
    Avuto riguardo alla dizione letterale  della  norma  che  contiene
 esclusivi  riferimenti  al "giudice" si deve assumere che il giudice,
 innanzi al quale viene svolta la particolare procedura, debba  essere
 munito   del   potere   di  decidere  la  causa,  cosi'  escludendosi
 l'istruttore,  cui  e'  demandata  solo  una  attivita'   di   natura
 preparatoria.
    Del   resto,   la   disposizione   giuridica  in  oggetto  prevede
 espressamente, tra i compiti  riservati,  in  tale  sede,  all'organo
 giudiziario  adito,  quello  relativo  alla  liquidazione delle spese
 processuali,  incombente,  quest'ultimo,   certamente   precluso   al
 giuidice istruttore.
    Ne' peraltro - contrariamente a quanto sostiene il legale di parte
 convenuta  -  il meccanismo procedurale, introdotto dalla norma, pare
 conciliabile  con  le  diverse   fasi   che   contraddistinguono   un
 procedimento  instaurato,  secondo  il  rito ordinario, dinanzi ad un
 organo giurisdizionale di natura collegiale.
    Se, da un lato, nulla vieta che ove si parla di "giudice" si possa
 intendere, non solo  il  pretore  o  il  conciliatore,  ma  anche  il
 collegio  dall'altro  necessariamente  si  deve ritenere che la prima
 udienza - in coincidenza della quale  la  norma  prevede  il  termine
 ultimo per sanare la morosita', fatta salva la facolta' inerente alla
 concessione  del  c.d. termine di grazia - sia quella fissata davanti
 al collegio e non quella, prima  in  assoluto,  tenutasi  dinanzi  al
 giudice  istruttore  (ovviamente, per consentire lo svolgimento della
 procedura, il Tribunale dovrebbe dapprima liquidare,  con  ordinanza,
 le  spese processuali e fissare quindi una nuova udienza avanti a se'
 per l'accertamento dell'avvenuta sanatoria e l'assunzione della causa
 a sentenza).
    Tutto cio', se pur astrattamente prospettabile, non  pare  consono
 allo spirito della legge.
    L'istituto  in  questione,  se  da  un  lato  e'  improntato ad un
 particolare favor  conductoris,  determinato  da  ragioni  di  ordine
 sociale,  dall'altro  e'  inevitabilmente  connesso  ad  esigenze  di
 celerita' estrinsecate  dal  legislatore  tramite  la  previsione  di
 preclusioni   temporali   dirette  a  coordinare  e  armonizzare  gli
 interessi contrapposti, riconducibili in capo a ciascuna delle  parti
 del rapporto processuale.
    Ora,   se   effettivamente   il   legislatore   avesse   preso  in
 considerazione l'applicazione della procedura della  sanatoria  della
 morosita'  nei  giudizi  ordinari di risoluzione instaurati avanti al
 tribunale, non si comprende come mai non abbia riservato  al  giudice
 istruttore  le  competenze relative all'attuazione dell'art. 55 della
 legge citata (cio' tanto piu' ove si  consideri  che  gia'  in  altre
 ipotesi  il giudice istruttore ha il potere di definire il processo -
 c.f.r. art. 306, terzo comma, e 307 ultimo comma, del c.p.p.).
    Indubbiamente  solo  una  statuizione  di   tal   genere   avrebbe
 consentito    la    realizzazione   delle   finalita'   ricollegabili
 all'istituto,  mentre  e'  evidente   che   un   differimento   delle
 preclusioni  processuali sino alla rimessione della causa al collegio
 comporterebbe uno "sbilanciamento" fra le parti o, quanto meno, delle
 incongruenze connesse all'inevitabile protrarsi del termine  previsto
 dalla  legge  per la sanatoria (per di piu' ulteriormente prorogabile
 con la concessione del termine di grazia), con la conseguenza che, in
 ipotesi, potrebbe essere frustrata la giusta aspettativa del locatore
 di ottenere la risoluzione giudiziale del contratto.
    Ne' a tali argomenti vale  controbattere  che  basterebbero  degli
 accorgimenti  pratici  -  quale  ad  es.  la  fissazione dell'udienza
 collegiale a breve termine - non potendosi certo demandare la  tutela
 degli  interessi  giuridicamente  rilevanti,  sottesi  alle posizioni
 soggettive delle parti, all'iniziativa dei singoli.
    Ma tale interpretazione, se pur in  ipotesi  conforme  all'intento
 del  legislatore  comporta  una inevitabile disparita' di trattamento
 tra conduttori morosi ai quali e'  consentito  di  bloccare  l'azione
 risolutoria  tramite  il pagamento dei canoni nel termine di grazia e
 conduttori morosi ai quali cio' non e'  consentito,  in  presenza  di
 giudizi parimenti solutori del rapporto (cfr. sent. Pret. Bergamo del
 24 giugno 1987, n. 225).
    Trattasi  di discriminazione tra casi sostanzialmente identici, in
 ordine alla quale non e' ravvisabile alcuna giustificazione.
    Inoltre la diversita' di  trattamento  deriverebbe  esclusivamente
 dall'iniziativa  di  una  delle  parti,  vale  a  dire il locatore, a
 seconda che quest'ultimo scelga un tipo di giudizio o  un  altro  (il
 che  non  e' certamente corrispondente a criteri di ragionevolezza ed
 equita').
    Per il complesso di considerazioni fin  qui  esposte,  si  ritiene
 pertanto     doveroso     sollevare     la     questione,    relativa
 all'incostituzionalita'   della   norma,   cosi'   come   comunemente
 interpretata.